Qualche settimana fa c’è stata una bella riunione di famiglia alla festa degli alpini del paesello in cui abitano i miei. Polenta e brasato tra zii e zie, cugini e cugine, cognati, consuoceri e chi più ne ha più ne metta. Un evento raro per la mia famiglia, poco unita da questo punto di vista, poco incline ai grandi raduni, ai ritrovi organizzati per il puro piacere di vedersi, di salutarsi, di scambiare quattro chiacchiere.
E’ stata decisamente una bella serata e per me anche una specie di dichiarazione/conferma al parentado, più o meno tacita e più o meno ufficiale, del mio essere in coppia con Pietro.
Tra tutti i partecipanti c’era pure mia cugina Barbara con la quale, a fine cena, durante una “pausa sigaretta”, si è parlato apertamente e per la primissima volta della mia omosessualità. Ad un certo punto, dopo averle raccontato la nostra storia e i nostri passi più recenti, se ne viene fuori con un bel “ma cosa ve ne frega se l’Italia è bigotta e non vi permette di sposarvi. Tanto voi la casa insieme l’avete comprata, vivete insieme, di fatto siete una coppia a tutti gli effetti”.
Me ne vergogno come se avessi fatto un torto alla causa omosessuale, prima che a me stesso, ma è stato lì che mi sono reso conto di non essere in grado di spiegare a un eterosessuale qualsiasi (quindi non la tua migliora amica, che ti conosce da quando avevi 5 anni e con la quale passi più tempo possibile) il valore, il significato, il motivo per cui desidero che la mia coppia sia riconosciuta e considerata come una famiglia, senza distinzione alcuna da quella tradizionale. E non perché non abbia saputo argomentare con parole sufficientemente convincenti ed efficaci le mie rimostranze ma perché non sono stato in grado di contrastare in qualche modo quel suo sguardo vacuo, perplesso, tipico di chi prova ad ascoltare ma non capisce. Mentre parlavo infatti, mentre tentavo di spiegarle il mio concetto di “visibilità” e di “riconoscimento sociale”, mi rendevo sempre più conto che in fin dei conti lei è eterosessuale, cresciuta in un contesto sociale in cui il problema non solo non è un problema, ma neppure esiste come argomento, come concetto da discutere. Un po’ come un vocabolo sconosciuto: non ne puoi conoscere il significato semplicemente perché non sai nemmeno della sua esistenza. Ho capito che quelli che cercavo di trasmetterle sono concetti così intrinseci nella sua vita, talmente permeati nel suo dna da non essere nemmeno più presi in considerazione dalla coscienza, dalla ragione; argomenti così lontani anni luce da quella quotidianità preconfezionata in cui è nata e in cui vive da non rendersi nemmeno conto che quello che per lei è, per l’appunto, quotidianità, normalità, consuetudine, per qualcun altro, per me e per Pietro, è in realtà un beneficio, un privilegio, uno status che ancora non abbiamo raggiunto.
Per carità, so perfettamente di aver scoperto l’acqua calda, ed è forse anche vero che né io né mia cugina siamo due menti eccelse, due arguti individui in grado di filosofeggiare sui massimi sistemi, ciò non toglie che per me è stata la prima volta. La prima volta in cui mi sono trovato di fronte (e su cui ho provato a soffermarmi) a questo gap, a questo divario di percezioni che, allo stato attuale delle cose, mi pare decisamente insormontabile.
Come ne vengo fuori, dunque? Voglio dire, come faccio a far capire, non a parole bensì nel profondo delle viscere, nella pancia, col cuore? A qualcuno di voi è capitata la stessa cosa? Qualcuno di voi, nel momento stesso in cui parlava di queste cose, ha avuto la palpabile percezione, la concreta certezza, che l’interlocutore stesse realmente capendo ciò che gli stavate comunicando anziché annuire solo perché è cosa gradita farlo?Ma soprattutto, perché dev’essere sempre tutto così complicato?
E’ stata decisamente una bella serata e per me anche una specie di dichiarazione/conferma al parentado, più o meno tacita e più o meno ufficiale, del mio essere in coppia con Pietro.
Tra tutti i partecipanti c’era pure mia cugina Barbara con la quale, a fine cena, durante una “pausa sigaretta”, si è parlato apertamente e per la primissima volta della mia omosessualità. Ad un certo punto, dopo averle raccontato la nostra storia e i nostri passi più recenti, se ne viene fuori con un bel “ma cosa ve ne frega se l’Italia è bigotta e non vi permette di sposarvi. Tanto voi la casa insieme l’avete comprata, vivete insieme, di fatto siete una coppia a tutti gli effetti”.
Me ne vergogno come se avessi fatto un torto alla causa omosessuale, prima che a me stesso, ma è stato lì che mi sono reso conto di non essere in grado di spiegare a un eterosessuale qualsiasi (quindi non la tua migliora amica, che ti conosce da quando avevi 5 anni e con la quale passi più tempo possibile) il valore, il significato, il motivo per cui desidero che la mia coppia sia riconosciuta e considerata come una famiglia, senza distinzione alcuna da quella tradizionale. E non perché non abbia saputo argomentare con parole sufficientemente convincenti ed efficaci le mie rimostranze ma perché non sono stato in grado di contrastare in qualche modo quel suo sguardo vacuo, perplesso, tipico di chi prova ad ascoltare ma non capisce. Mentre parlavo infatti, mentre tentavo di spiegarle il mio concetto di “visibilità” e di “riconoscimento sociale”, mi rendevo sempre più conto che in fin dei conti lei è eterosessuale, cresciuta in un contesto sociale in cui il problema non solo non è un problema, ma neppure esiste come argomento, come concetto da discutere. Un po’ come un vocabolo sconosciuto: non ne puoi conoscere il significato semplicemente perché non sai nemmeno della sua esistenza. Ho capito che quelli che cercavo di trasmetterle sono concetti così intrinseci nella sua vita, talmente permeati nel suo dna da non essere nemmeno più presi in considerazione dalla coscienza, dalla ragione; argomenti così lontani anni luce da quella quotidianità preconfezionata in cui è nata e in cui vive da non rendersi nemmeno conto che quello che per lei è, per l’appunto, quotidianità, normalità, consuetudine, per qualcun altro, per me e per Pietro, è in realtà un beneficio, un privilegio, uno status che ancora non abbiamo raggiunto.
Per carità, so perfettamente di aver scoperto l’acqua calda, ed è forse anche vero che né io né mia cugina siamo due menti eccelse, due arguti individui in grado di filosofeggiare sui massimi sistemi, ciò non toglie che per me è stata la prima volta. La prima volta in cui mi sono trovato di fronte (e su cui ho provato a soffermarmi) a questo gap, a questo divario di percezioni che, allo stato attuale delle cose, mi pare decisamente insormontabile.
Come ne vengo fuori, dunque? Voglio dire, come faccio a far capire, non a parole bensì nel profondo delle viscere, nella pancia, col cuore? A qualcuno di voi è capitata la stessa cosa? Qualcuno di voi, nel momento stesso in cui parlava di queste cose, ha avuto la palpabile percezione, la concreta certezza, che l’interlocutore stesse realmente capendo ciò che gli stavate comunicando anziché annuire solo perché è cosa gradita farlo?Ma soprattutto, perché dev’essere sempre tutto così complicato?